mercoledì 22 marzo 2017

Se Grillo viene definito "antidemocratico", gli altri che fanno peggio cosa sono?


(di Daniela Ranieri – il fatto quotidiano) – Se a Sanremo Carlo Conti avesse annullato il voto da casa e avesse imposto un suo vincitore dicendo ai telespettatori “fidatevi di me”, si sarebbe presumibilmente scatenata una rivolta popolare. Noi siamo un popolo che ci tiene, ai rituali democratici. Invece, la decisione di Beppe Grillo di annullare le primarie online per Genova con la stessa motivazione (“vi chiedo di fidarvi di me”) ha provocato il solito bradisismo della base sul web, la solita indignazione strumentale dei pidini su Twitter, il solito scandalo nelle redazioni dei giornali grandi, dove, vicino al fornello del caffè, viene tenuta al caldo la reductio ad Hitlerum per qualunque cosa faccia Grillo. Quindi nulla, di fatto.

Ma tra il paragonare il M5S ai nazisti e accettare che Grillo faccia quel che gli pare dei voti degli iscritti, espressi peraltro secondo modalità stabilite dal movimento, c’è di mezzo una riflessione sul nostro senso per la democrazia e sul concetto di disintermediazione, che fino al 4 dicembre, regnante lo scout, pareva il non plus ultra dell’evoluzione politica.

Maggio 2015. Matteo in piedi, in camicia bianca, traccia coi gessetti colorati su una lavagna i cardini della cosiddetta Buona scuola: “1) Alternanza scuola lavoro 2) Cultura umanista (sic) 3) Più soldi agli insegnanti”, etc. Come la Storia ha didatticamente dimostrato, si trattava di fandonie, punite come tali da coloro ai quali il maestro Manzi 2.0 si rivolgeva dritto, senza filtri, usando quelli che secondo lo stereotipo sono il loro linguaggio e i loro strumenti quotidiani. Era la disintermediazione. Da una parte dello schermo Matteo, spiccio, pragmatico, appassionato; dall’altra il popolo, chiamato in causa in modo esclusivo, come se ogni video, ogni tweet, ogni matteorisponde fosse un’udienza papale tarata sui bisogni della singola categoria. Tutti i soggetti che un tempo mediavano tra il leader e il popolo sparivano, delegittimati dal leader col sarcasmo (il gettone nell’iPhone dei nostalgici dell’art. 18) o con l’indifferenza.

Erano i giorni in cui i giornali, in piena Sindrome di Stoccolma, ci rintronavano col mito della “democrazia decidente”, edizione smart del “centralismo democratico” del Pci e versione civilizzata del “ghe pensi mi” aziendalista-berlusconiano. “Una democrazia che non decide è l’anticamera della dittatura”, tuonava il leader azionando le telescriventi di mezza Italia, e citava un incolpevole Calamandrei. La Boschi intimava: “Si discute, ma poi si decide e la minoranza si adegua”, e Matteo faceva spallucce tipo Caligola: “Abbiamo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione”, “La minoranza si oppone a tutto? Ce ne faremo una ragione”, e intanto sostituiva 10 membri della Commissione Affari costituzionali, colpevoli di nutrire perplessità in merito alla legge elettorale decisa insieme a B. e a Verdini.

Da allora Renzi ha esasperato lo schema della democrazia decidente (che poi era una democrazia esecutiva) in tutti i modi in cui gli è riuscito: occupando con amici e soci (suoi o del babbo), sodali e compaesani tutta la filiera del governo, delle aziende pubbliche e partecipate; decidendo chi dovesse andare in Tv perché più adatto a telepromuovere la “madre di tutte le riforme” (quell’aborto di Senato con gli amministratori locali); dicendo alla sua “base percepita” (una specie di popolo connesso, flessibile, brandizzato Apple) che bastava un Sì per far ripartire l’Italia. Bastava fidarsi di lui, che con l’enricostaisereno si era preso una delega in bianco su tutto.

È evidente che ciò che Grillo fa una tantum scatenando un putiferio, gli altri lo fanno da sempre nel silenzio più routinario. Grillo e Casaleggio hanno creduto che la democrazia disintermediata della piattaforma (peraltro appena copiata da Matteo) potesse sostituire la delega con una più precisa e diretta rappresentanza. Ma i regolamenti sono una conquista democratica perché limitano la discrezionalità di chi ha potere. Grillo avvantaggia, contro le proprie stesse regole, i candidati che secondo lui sono più salutari per il movimento; Renzi ha costruito una classe dirigente composta solo dai suoi amici e da quelli che gli danno ragione, e persino adesso che non ha più titoli indirizza la legge elettorale, il partito e le nomine di Stato. Se crediamo alla narrazione mainstream che vuole che solo il M5S abbia “un problema di democrazia interna”, forse dimentichiamo che Renzi è quello che insieme a Orfini ha eliminato il sindaco eletto Marino mandando i consiglieri del Pd a dimettersi dal notaio, senza nemmeno bisogno di dire “fidatevi di me”: è bastato far credere agli elettori che oltre alla vicenda degli scontrini gravasse sul sindaco il sospetto di incapacità, subodorata dal leader onnisciente, a cui è bastato girare il pollice verso il basso per annullare un voto popolare. Ma guai a dire che Renzi è antidemocratico: semmai, è un democratico decidente.

1 commento:

  1. LE REGOLE,IN UN PARTITO ,O MOVIMENTO,SONO IL MOTORE DELLA DEMOCRAZIA,UN PLAUSO AL GARANTE GRILLO,CHE CONTROLLA CHI SI CANDIDA ,E CHE NON SUCCEDA PIù CHE VIENE USATO IL M.5.S COME TRAMPOLINO DI LANCIO PER POI CAMBIARE CASACCA UNA VOLTO ELETTO NEL M.5.S,GRAZIE GRILLO SEI IL GARANTE E NE SIAMO FIERI DEL NOSTRO GARANTE..

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